Un batik non è un tessuto stampato qualunque: il disegno nasce dall’alternanza di cera e tintura che penetrano nelle fibre in tempi diversi, strato dopo strato. Nelle opere di pregio la cera viene stesa a mano con il canting, così da tracciare canali sottilissimi attraverso cui le tinture vegetali o sintetiche filtrano per capillarità. Quando si decide di pulire un batik occorre tenere presente che la cera residua e le molecole di colore non fissate completamente possono reagire all’umidità e ai tensioattivi in modo imprevedibile. Prima di avvicinare qualunque soluzione detergente è quindi indispensabile capire se ci si trova di fronte a un pezzo recente realizzato con coloranti reattivi o a un manufatto antico tinto con indaco naturale o soga, la corteccia che in Indonesia regala i toni mordoré.
Indice
- 1 Valutare lo stato di conservazione e la reale necessità di lavaggio
- 2 Test preliminare di solidità del colore in un’area nascosta
- 3 Preparare la soluzione detergente e il contenitore adatto
- 4 Immergere e muovere il tessuto con lentezza, senza strofinare
- 5 Sciacquare fino a che l’acqua non risulta perfettamente limpida
- 6 Asciugatura piana all’ombra e leggera stiratura sul rovescio
- 7 Conservazione e prevenzione dello sporco futuro
- 8 Affidarsi a professionisti per pezzi di valore museale
- 9 Conclusioni
Valutare lo stato di conservazione e la reale necessità di lavaggio
Non ogni macchia merita un intervento radicale. Su un batik appeso a parete la polvere può spesso essere rimossa con una leggera aspirazione a bassa potenza protetta da una garza, evitando di stressare le fibre con acqua e sapone. Se però il tessuto presenta aloni di sudore, striature di grasso o odore di muffa, il lavaggio diventa inevitabile, ma va inteso come operazione di minima invasività: l’obiettivo è estrarre lo sporco senza rimuovere lo strato finale di cera microframmentata che conferisce profondità cromatica al motivo. Chi possiede un batik particolarmente fragile dovrebbe fotografare prima dell’intervento ogni dettaglio della tessitura; in questo modo, se al termine comparissero sbiadimenti, sarebbe più facile individuare in quale fase si è verificata l’alterazione.
Test preliminare di solidità del colore in un’area nascosta
Il passaggio più delicato è il piccolo saggio di solidità. Inumidendo un bastoncino cotonato con acqua demineralizzata tiepida e tamponando l’estremità del tessuto, si verifica se sul cotone rimanga traccia di colore. Se il batik rilascia pigmento anche prima dell’aggiunta del detergente, significa che le molecole tintorie legate al mordente sono poche o degradate; in tal caso la pulizia vera e propria dovrà limitarsi a un bagno breve con tensioattivo non ionico a pH neutro, o traslarsi addirittura a un semplice passaggio in atmosfera di vapore tiepido seguito da asciugatura sotto teli assorbenti. Il test andrebbe ripetuto su almeno due colori differenti perché la resistenza dell’indaco non corrisponde, per esempio, a quella dei rossi a base di alizarina.
Preparare la soluzione detergente e il contenitore adatto
Per un batik domestico si adopera una bacinella di plastica perfettamente pulita in cui far scivolare acqua piovana o distillata a circa trenta gradi. L’aggiunta di un cucchiaino di sapone di Marsiglia liquido – quello puro, privo di sequestranti fosfatici – garantisce una detergenza dolce; la schiuma deve essere quasi impercettibile, segno che il tensioattivo non è sovradosato. In presenza di macchie organiche fresche si può introdurre un cucchiaino di bicarbonato, ma solo se il primo test di colore ha dato esito soddisfacente, perché l’alcalinità lieve del bicarbonato può comunque attaccare i toni marroni ricavati da soga. La bacinella va disposta su un piano stabile, lontano da correnti d’aria che farebbero raffreddare rapidamente l’acqua.
Immergere e muovere il tessuto con lentezza, senza strofinare
Il batik si appoggia in vasca distendendo le pieghe con il dorso delle mani, non con le dita, per evitare punti di pressione. Una volta sommerso, non si sfrega e non si torce: ci si limita a un movimento ondulatorio che permette all’acqua saponata di attraversare le trame. Ogni quattro o cinque minuti si solleva delicatamente per verificare l’intorbidimento: se l’acqua appare più opaca di una tisana chiara, si sostituisce con nuova soluzione a temperatura identica. L’intera fase non dovrebbe superare i quindici minuti per non ammorbidire eccessivamente la cera. Su macchie localizzate di grasso si poggia un fazzolettino in TNT imbevuto di alcool isopropilico, tenuto in sede pochi secondi, subito neutralizzato risciacquando con la stessa acqua di lavaggio.
Sciacquare fino a che l’acqua non risulta perfettamente limpida
Il risciacquo è il vero punto di svolta: un detergente residuo continua ad agire anche da asciutto. Si svuota la bacinella, si riempie con acqua pulita e si ripete il bagnetto di agitazione; occorreranno almeno due o tre cicli. L’ultimo può essere completato con tre gocce di aceto bianco, che abbassano il pH spostandolo verso il neutro leggermente acido, ambiente in cui la cellulosa del cotone del batik dà il meglio in termini di stabilità. Se il tessuto è molto grande, si potrà risciacquare sotto un doccino a bassa portata, avendo cura di sostenere la stoffa su un foglio di plastica rigida forata per non gravare sui fili orizzontali.
Asciugatura piana all’ombra e leggera stiratura sul rovescio
Terminata l’operazione, non si strizza il batik: si arrotola invece fra due teli di spugna e si preme con il peso del corpo per estrarre l’eccesso d’acqua. Poi si stende orizzontalmente su una superficie piana, protetta da un lenzuolo bianco, in un ambiente ventilato ma privo di sole diretto; l’irradiamento ultravioletta è nemico delle tinture naturali. Quando risulta quasi asciutto al tatto, si può passare il ferro tiepido sul rovescio, interponendo un telo di cotone. Il calore aiuta a ridare tono alla cera residuale, rendendo i contorni del disegno di nuovo nitidi. È fondamentale non superare i centoventi gradi, pena la rammollitura eccessiva della cera e la possibile trasmigrazione di colore fra zone contigue.
Conservazione e prevenzione dello sporco futuro
Uno dei migliori modi per ridurre la frequenza dei lavaggi è conservare il batik in un luogo asciutto, avvolto in carta velina priva di acidi o, se esposto, dietro vetro con filtro UV. Ogni tre o quattro mesi si può passare un pennello morbidissimo tipo setola di capra, asportando la polvere superficiale prima che penetri. Gli acari e le tarme non aggrediscono il cotone pulito, ma la sporcizia organica sì; quindi un batik ben asciutto e riposto lontano da fonti di vapore domestico resta stabile per anni. Quando arriva il momento di riportarlo a contatto con l’aria, bastano poche ore in posizione piatta perché recuperi la planarità.
Affidarsi a professionisti per pezzi di valore museale
Se il batik possiede una firma rinomata, pigmenti storici o valore affettivo elevato, conviene affidarlo a un restauratore tessile. Quest’ultimo dispone di banchi aspiranti, carte giapponesi idrorepellenti e tensioattivi selettivi che rimuovono solo determinati composti senza sfiorare la gommalacca che spesso fissa i colori marroni. Il costo potrà sembrare importante, ma paragonato al rischio di sbiadire i blu di un batik antico, risulta un investimento ragionevole.
Conclusioni
Pulire un batik significa muoversi fra due poli: la necessità di rimuovere sporcizia e odori e il dovere di rispettare la fragilità della sua decorazione a base di cera e tinture multiple. Con test preliminari, detergenti delicati, tempi controllati e asciugatura protetta si ottiene un risultato sicuro, capace di restituire brillantezza senza alterare l’equilibrio cromatico originario. La regola d’oro resta sempre la stessa: quanto più accurata è la prevenzione – esposizione ridotta a polvere, umidità e luce – tanto più rari e lievi saranno gli interventi di pulizia, prolungando la vita di questo prezioso tessuto narrativo che unisce artigianato e identità culturale.